Qualche decennio fa,
cinque menti illuminate, passeggiando per le strade del parco delle Acque
Minerali, dalle parti del Monte Castellaccio, sulla riva destra del fiume
Santerno, a Imola, si fecero venire l’idea di tirare qualche linea per creare
un percorso fra quelle strade. Una manciata d’anni dopo si correvano già le
prime gare e iniziò la leggenda di un circuito aspro e sinuoso, nato in un
luogo bellissimo e battezzato direttamente nel mito, l’Autodromo Enzo e Dino
Ferrari, più evocativamente Imola, per tutti coloro che lo identificano.
Imola è un tempio e
chi vi si accosta deve aver cura di farlo come se si recasse in un cimitero di
guerra, trattando quelle curve e quei rettilinei con lo stesso doloroso
rispetto che si riserva a un sacrario.
Si parcheggia distrattamente nella ghiaia, ma, se si alza lo sguardo, ci si trova davanti a una stele di cerchi metallici uno sull’altro, dove una targa con una dedica commovente e un’occhiata alla pista al di là delle protezioni rende edotti anche i più distratti che quella è la chicane dedicata a Villeneuve, l’Aviatore.
Lì è dove, un sabato che sembrava qualunque, un'ala s’è staccata portandosi via la vita di Roland Ratzenberger e, con un po’ di spirito d’avventura, spingendosi su dalla strada, si può vedere il luogo dell’impatto, dove qualche romantico ha lasciato una foto e dei fiori di plastica, vegliati dalla tribuna che ora ha il suo nome.
Una strada che
s’inoltra nel parco, ciclisti silenziosi e qualche bambino, poi s’incontra un
monumento bronzeo essenziale e struggente, un uomo seduto su un muretto, perso
nei suoi pensieri: ognuno sta solo sul
cuor della terra, trafitto da un raggio di sole, sembra voler dire, mentre
osserva con superno distacco bandiere, foto, quadri, magliette e striscioni,
che gli fanno compagnia come variopinti ex voto.
Imola s’è fermata per sempre quel primo maggio e non importa se
s’è corso per altri dodici anni prima che il dio denaro tagliasse fuori quel
circuito dal calendario, non importa se vi si svolgono manifestazioni e gare di
altri campionati: se foste passati di là in un gennaio anonimo e piovoso non
più di due anni fa, salendo sulle tribune mestamente lasciate aperte e
accessibili, avreste visto un cantiere al posto del paddock e gli alloggiamenti
per la stampa ancora arredati con tanto di televisori, quelli vecchio tipo, a
tubo catodico; avreste visto un luogo ingrigito, quel che resta dopo una
calamità naturale, quando tutti scappano lasciandosi dietro le proprie cose.
Da quando Senna non corre più non è più domenica, dice la canzone, e qualcuno sembrava volerlo ribadire, a pennarello, su uno dei sedili gialli - mai puliti - della tribuna: Senna 4 Ever.
È storia che, nella sua stagione d’esordio, il 1984, Ayrton
Senna disputò le prove a Imola ma, caso unico, non si qualificò; giurò, allora,
che, negli anni a venire, avrebbe sempre ottenuto la pole position e, per ben
otto volte in undici edizioni disputate, si aggiudicò il primo posto in
griglia, conquistando il record del maggior numero di pole in un Gran Premio,
oltre che tre vittorie.
Basterebbe questo a illustrare lo speciale legame fra Imola, feudo della Ferrari, e il pilota immenso che fu grandissimo senza aver mai gareggiato su una Ferrari; basterebbe fare un giro nel sottopasso stradale che porta all’ingresso principale del circuito, dove qualche writer ha disegnato a spruzzo un’effigie di lui vestito con i colori della Mc Laren; basterebbe vedere quanta gente –
venticinquemila, dice chi si è preso la briga di contarli - si stia assiepando
avanti ai cancelli vent’anni dopo quella fatale domenica, il primo maggio 2014,
in attesa di percorrere la pista, in processione agrodolce verso la Tamburello.
ImolAyrton 2014 sta scritto su una bandiera che garrisce al
vento sopra le loro teste, perfetta sintesi di quel che accade. Beffarda la
sorte che, proprio a Imola, che lo amava e che lui amava, gli ha presentato il
conto su quel muretto: ImolAyrton, non a caso.
Sono le 14.17 e stare fra quella folla colorata e silenziosa mi
strappa il cuore; sono a non più di dieci metri dal luogo in cui sono radunati
giornalisti e piloti e sento distintamente le belle parole di Ezio Zermiani, mi
arrabbio con l’approssimativa traduzione del commovente ricordo di Gerard
Berger, penso alla vigliacca fine di Michele Alboreto mentre mi si dice che
sono tutti lì i piloti italiani che nel 1994 correvano nel campionato di
Formula Uno e mi fa un po’ tenerezza Fernando Alonso che smette i panni del
gladiatore e ritorna un bambino che aveva il poster di Senna in cameretta.
Confesso: io non ce l’avevo il poster di Senna in cameretta, ma
avevo la figurina dell’album Formulissima di Riccardo Patrese, che mi sono
portata dietro fin qui, sulla ghiaia della Tamburello, e, durante quell’intenso
e lunghissimo minuto di commemorazione, la stringo fra le mani come una zia un
po’ tocca fa con la foto del nipote prediletto; e poi a casa mia tenevamo per
la Ferrari e detestavamo Prost che la chiamava camion, a ogni gara pregavamo
che corresse un po’ di più e si battesse alla pari con quelle fenomenali Mc Laren,
a sportellate, sul filo di lana. Sì, perché per noi la vittoria doveva avvenire
in pista, in un confronto cavalleresco e spettacolare.
Nessuno mai in casa mia ha tifato contro Ayrton Senna, nemmeno
quando Prost con la Ferrari finì fuori pista e perse il titolo che poi andò a
lui, perché Senna assommava in sé quel che di magnifico e controverso c’è in
questo sport bellissimo: estro e scienza, coraggio e astuzia, preparazione e
improvvisazione, tecnologia e anima, determinismo e fato. Senna era l’avversario
da cui era un onore farsi battere e il campione che tutti avremmo voluto con i
colori della nostra squadra; Senna aveva un talento disumano e un mondo
malinconico nascosto nello sguardo; Senna era bello come un eroe romantico e
ascetico nella sua ferrea disciplina come un eremita medievale. E Prost, che
gli correva accanto e contro, il Professore … chissà cos’ha pensato quando ha
saputo, quella dannata domenica; guardando le sue interviste, sembra di
sentirlo scricchiolare come un vetro spaccato, quando ricorda che lui,
dall’abitacolo della sua Williams, gli aveva mandato un saluto chiamandolo
amico.
Non chiamateci superficiali, perché abbiamo approfittato della pista aperta e libera per noi per farci le foto come dei bambini in gita; non biasimateci perché abbiamo inseguito questa o quella celebrità, presunta o tale, per essere immortalati con loro;
non derideteci perché ci siamo passati vicendevolmente sui piedi
– venticinquemila su venticinquemila – per lasciare un graffito sul poster
della manifestazione; soprattutto non accusate i tifosi di rosso vestiti di essersi
appropriati di qualcosa che non era loro e di essersi presentati a Imola
bardati a festa come per segnare il territorio: questa è la passione e non si
può comprendere o arginare.
La passione ha spinto tantissimi ad assieparsi all’ingresso
paddock, fin dall’apertura in mattinata, per provare l’ebbrezza di scendere in
pista con la propria autovettura; fra sfilate di Porsche, di Predator, di
Cinquecento Abarth, di Lotus Elise ecco spuntare eroi solitari in vecchie Ford
Ka, aggiungendo ai quali le bizzarre Lotus Seven pareva di assistere a un
episodio delle Wacky Races e ci si aspettava che sbucasse, contromano, Dick
Dastardly col suo cane Muttley.
Ho
eretto un monumento più duraturo del bronzo e più maestoso della regale mole
delle Piramidi, dice Orazio, e lo ripetono le Lotus
nereoro e gialle e la Mc Laren bianca e rossa, il giorno dopo, mentre fuori
piove come Senna la manda, mentre dei valorosi si stanno dando battaglia in una
gara endurance di Kart, laggiù in pista, e Giancarlo Minardi è tornato al posto
che gli compete, vale a dire sul muretto di una pit lane.
Qui nel box trentaquattro speravamo di stare
all’asciutto ma siamo tutti inzuppati di lacrime mentre seguiamo il serpentone
bustrofedico delle foto di Keith Sutton che ci raccontano, con una potenza
narrativa che nessun articolo o servizio filmato potrebbe eguagliare, due
storie, due vite, due carriere, due anime.
A voler sottolineare la dicotomia fra due esistenze quanto mai
dissimili, che solo la Grande Livella ha parificato in un medesimo luogo, si è
voluto affiancare il volto sereno e speranzoso di Roland Ratzenberger alla
gloriosa Mc Laren con la quale Ayrton Senna aveva scritto pagine memorabili nel
libro delle leggende a motore.
L’effetto di una pioggia battente trafitta dal rombo del motore,
mentre si getta uno sguardo all’indietro su tutte quelle memorie, ci
ammutolisce d’ammirazione.
Nel paddock, adesso, al posto del cantiere c’è un fascinoso
museo dedicato a Checco Costa, che la Torre Dekra, la vecchia Torre Marlboro,
protegge con la sua mole; tutt’intorno, alcuni murales ricordano quel che fu
con poderosa sintesi: gare di motocross, una cornice di pubblico debordante,
due Ferrari appaiate, Ayrton e Gilles.
L’esposizione non è emozionante e toccante come la mostra
fotografica qualche piano più in basso, ma è un affascinante viaggio nel tempo
che spazia fra l’uomo, con le sue foto di famiglia da bambino e i suoi progetti
umanitari, e il pilota, con le sue monoposto, le sue tute e i suoi caschi.
Ognuno posa il proprio sguardo nostalgico allo scatto
celeberrimo di lui giovanissimo seduto accanto ai già affermati Prost, Piquet e
Mansell, mentre all’uscita l’accompagna la canzone di Lucio Dalla in
filodiffusione: il mio nome è Ayrton e
faccio il pilota.
Immagini che sono un ricordo collettivo, che
fanno assieme sorridere e commuovere, come le vignette di Matitaccia, e fanno
realizzare cos’abbiamo perso in un attimo, così come la partita della Nazionale
Piloti della sera prima senza di lui ci ha reso ancora più palese quanto manchi
a noi, al motor sport e a questa manifestazione uno come Michael Schumacher.
A Imola, dove per due interi giorni su quattro l’ira di Giove
Pluvio s’è riversata senza alcuna remora, una truppa nutrita e festosa di
pubblico- sulle tribune, nel paddock, sulla terrazza dei box – è rimasta per
ore ad assistere alle manifestazioni e a spalancare bocca e occhi quando, ogni
tanto, scendeva in pista la Porsche 956 con la quale Senna ha corso la Cento
Chilometri del Nürburgring.
E gli applausi, che applausi quando, fra due scie iridescenti
d’acqua, è volata in pista la Lotus 97T, la sua Lotus nera e oro, in un boato
fragoroso.
Tutti abbiamo ricordato cos’erano le gare una volta, quando il
rombo dei motori che si scaldavano alla partenza faceva tremare la curva Rivazza
e Caronte saliva su a bussare, chiedendo perché diavolo all’ora della
pennichella non si potesse avere un po’ più di quiete; oggi l’inferno è tutt’al
più quello di Dante e, come lui nel canto XXI, quando una monoposto ci passa
davanti pensiamo mestamente che del retrotreno avea fatto trombetta. Queste mirabolanti rivoluzioni di stagione
non dicono niente a un pubblico che si annoia davanti alla televisione e ci
pensa due volte prima di sobbarcarsi i costi di una trasferta dal vivo, quando
sa che vedrà, al massimo, sorpassi imposti da un’ala mobile e gare condizionate
da pneumatici di burro. Ingiusto per il pubblico e ancor più ingiusto per i
piloti.
Dopo quattro giorni intensi, il biglietto è un po’ stropicciato
e fa specie pensare che da domani si tornerà normali. Per quattro giorni,
infatti, noi partecipanti siamo stati speciali, perché abbiamo avuto libero
accesso a zone per noi inavvicinabili, come il paddock, i box, la pit lane e –
per chi si è intrufolato – il muretto dei box, per non parlare della
possibilità di percorrere l’intera pista l’ultimo giorno, liberi, senza cordoni
di sicurezza o limitazioni prestabilite.
È tornato il sole e, dopo la corsa ciclistica, sfilano solenni sul circuito di Imola le splendide vetture che partecipano alla Transappenninica.
C’è aria da sera del dì di festa però, qui a Imola e quanti di noi approfitteranno dell’ultima apertura della pista sanno già che, al loro ritorno nel paddock, non troveranno più le Lotus, la Mc Laren e gli altri cimeli sparsi per i box, come l’eroica Fiat Chiribiri del 1913, o la Porsche 956, già impacchettata e pronta a tornarsene verso casa.
In pista non c’è la stessa folla del giovedì e
la commozione ha lasciato il posto all’allegria scanzonata di bambini con le
biciclette e ragazzi in comitiva.
Gruppetti più o meno numerosi si danno il cambio per scattarsi una foto alla Tamburello un po’ come si fa con i piccioni a piazza San Marco, ma in mezzo a questo sciame che si gode il bel tempo, un giovane, dolente e silenzioso, sta raccolto vicino alla Tosa, lì, dov’è morto Roland Ratzenberger. È davanti alla foto appesa alla rete con i fiori di plastica e spiega, in un approssimativo inglese, a chi gliel’ha domandato, in un altrettanto approssimativo inglese, che è lì per lui, la vittima della tragedia oscurata; è venuto da solo, forse è austriaco, e da solo se ne va, arrampicandosi per la Variante Alta commosso, ma fiero d’esserci stato.
Uno splendido tramonto cala su Imola, sull’Autodromo Enzo e Dino
Ferrari. Sullo starting grid c’è un festoso gruppetto che non vuole proprio
andarsene: si fanno chiamare Senna Boys, sono in tre, due inglesi e un cileno,
si sono conosciuti a Spa in un pub, dopo un Gran Premio e, ogni volta che ce
n’è l’occasione, s’incontrano in giro per l’Europa per testimoniare la loro
passione per Ayrton Senna e per la Formula Uno.
L’orologio sul traguardo segna che sono passate da un pezzo le
diciotto ed è proprio a quell’ora che, vent’anni fa, uno scarno comunicato
medico diede la conferma al suo popolo che il re era trapassato. Che cosa
ricordi di allora, a distanza di vent’anni? Non il week end di gara, non
l’incidente, né i disperati e vani soccorsi, ma l’aereo della Varig che atterra
di notte, lo smisurato corteo fra le strade di San Paolo, le immagini della sua
lapide nel verde, soprattutto il Brasile, che piangeva sconsolato, quel paese
lussureggiante di contrasti che ho fugacemente conosciuto proprio in quegli
anni. Il Brasile e Romario, che, qualche mese dopo, indicando il cielo a uno stadio
gremito, sventolava sul campo uno striscione con scritto: guarda Ayrton, il quarto è nostro!
Un’impressionante sequela di pole position, vittorie e giri
veloci, tre titoli mondiali e record ancora da battere a distanza di vent’anni,
il tutto condensato in dieci, impareggiabili stagioni: questi sono i numeri da
secolo breve di Ayrton Senna. Lasciando Imola, varcando per l’ultima volta il
cancello che separa il paddock dal parcheggio, domina la consapevolezza delle
cose perdute e irripetibili e domandarsi cosa sarebbe stato se invece … è solo
un esercizio di stile che non conforta.
Arrivederci Ayrton, che ci guardi pensieroso dal poster della
manifestazione, col tuo sorriso triste e i tuoi capelli scompigliati.
Arrivederci Imola: non cimitero di guerra né tempio, ma teatro di uno
spettacolo incompiuto che poteva, doveva andare avanti.
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