mercoledì 20 luglio 2016

F1 Confidential: confidenze e strategie per un futuro migliore della Formula Uno. Recensione riservata, ma non troppo.

Pensavate che l'Ellezeviro di FormulaElle fosse definitivamente tramontato, sorpassato da nefaste logiche arbitrarie ammazza-bizzarria? Pensavate male. Cavia dell'esperimento - ma sarebbe meglio dire valoroso volontario, visto che si è offerto lui - è Alberto Saiu di FormulaPassion, che ricorderete per essere, in coppia con Salvo Sardina, uno dei bravi professionisti che mi hanno dato una mano in passato, condividendo e incoraggiando questo diario personale sulla Formula Uno e sul mondo che tanto bene mi ha portato.
Alberto Saiu ha scritto un libro, F1 Confidential, che tratta in maniera sistematica i principali problemi che affliggono la Formula Uno attuale, basandosi su dati e intervallando la trattazione con interviste e opinioni, raccolte sotto forma di "confidenza" . Ne parlai anche io tempo fa, in una lettera alla Formula Uno, che trovate qui. Il libro è una summa, quindi è molto completo, ma non annoia perchè i dati freddi sono alternati dalle testimonianze. Per cui è tecnico ma leggibile, che non è affatto poco.

Ecco a voi la mia recensione su F1 Confidential, di Alberto Saiu, che potete acquistare su tutte le principali piattaforme (Amazon, Apple Store e Google Play)

Austria e Gran Bretagna: una Ferrari “WANNABE” fra detrito e castigo

Pubblicato su CircusFuno l'11/07/16

If you want my future, forget my past, cantavano, esattamente vent’anni fa, le Spice Girls, fra le cui fila militava l’attuale signora Horner, ammantata di patriottica Union Jack. La Ferrari lo sa bene: rivoluzionata la line up tecnica al grido di “Liberiamo le seconde linee!”, ha goduto di un dolce 2015 appena sufficiente a lenire l’amaro 2014 ed era pronta a dimenticare il passato per gettarsi in un luminoso futuro. Che la luce infondo al tunnel cominci a somigliare, dopo nove gare di una stagione lunga e difficile, al treno che arriva in direzione opposta – calembour, questo,  attribuito a Sergio Marchionne, ah, saporito e letale karma! – è una considerazione che alberga ormai diffusamente anche negli animi degli estimatori duri e puri, suffragata dai fatti, che prendono il posto dei wannabe. Alla Ferrari non sono bastati i mezzi ingenti, due piloti validi e affiatati, una squadra agguerrita e un presidente che ha tutte le intenzioni di recuperare  peso politico all’interno della governance della Formula Uno: di gara in gara, ci si è trascinati in uno scenario non ottimale, ci si accontentava invece di essere contenti, fra problemi di affidabilità e una cronica incomunicabilità fra monoposto e gomme che non sembrano poter essere risolti da nessuna delle soluzioni messe finora in campo.
E così, dopo il detrito del gran Premio d’Austria, è arrivato il castigo del Gran Premio di Gran Bretagna. Cos’è andato storto, a Silverstone, per la Scuderia del Cavallino? Più o meno tutto, in ordine sparso: qualifiche infelici, ciclici cambi di … cambio, litigi con le gomme, penalità assortite, strategie … Un attimo, la strategia, forse, fa eccezione: era talmente azzeccata che l’hanno attuata tutti contemporaneamente, risucchiando i due piloti nel traffico, a lottare fra le lotte degli altri, a ogni cambio gomme.
Per completare il quadro, la gara delle Ferrari era stata compromessa già dalla discutibile decisione della direzione gara di far partire la corsa in regime di Safety Car: è vero che il castrante trenino iniziale ha demoralizzato tutti, ma ha penalizzato in particolar modo chi partiva nel mucchio come Vettel e Raikkonen, i quali, invece, avrebbero potuto avvantaggiarsi di una partenza “normale”, scalando posizioni utili. Senza voler indulgere nel se fosse e ben consapevoli che le gare sul bagnato hanno scritto pagine memorabili del motorsport ma segnato anche indicibili disgrazie, la sicurezza non deve, comunque, diventare un alibi per prendere sempre le stesse decisioni.  A Montecarlo e a Silverstone sono state fatte scelte che cozzano contro lo spirito stesso di uno sport  impastato nel rischio come la Formula Uno; oltre che privare gli spettatori dello spettacolo, si riduce il pilotaggio a un mero esercizio impiegatizio di esecuzione pedestre di un regolamento, che regala emozioni – ma emozioni espresse con parole brutte, molto brutte – solo nel comminare sanzioni a destra e a manca. Mai vista una tale autoreferenziata soddisfazione nello scontentare tutti come in questi ultimi anni.  If you wanna be my lover, you gotta get with my friend, diceva la solita canzone, ma qui, cari Eminentissimi Capoccioni di FIA, FOM e Direzione Gara, stiamo litigando senza requie, altro che amici e amanti!
Alla Ferrari, in conclusione, direi di ascoltare il resto della canzone, soprattutto quando esorta Now don’t go wasting my precious time: cara Ferrari, non perdere altro tempo prezioso a cercare di capire come sia finita sul binario di sviluppo sbagliato, con un treno di disillusione che ti viene contro, perché sei ancora in tempo a tirare la leva dello scambio e saltare sul  binario della rincorsa a Mercedes, sempre che non sia già stato occupato da Red Bull o da qualche altro inseguitore. La risposta alla domanda Tell me what you want, what you really really want è sempre quella:  non basta più tentare, bisogna riuscire.
If you wanna be my lover.

martedì 5 luglio 2016

Gran Premio d’Austria: niente noia, ma è troppo poco!

Pubblicato su CircusFuno il 04/07/16

GP AUSTRIA F1/2016 - SPIELBERG (AUSTRIA) © FOTO STUDIO COLOMBO PER FERRARI MEDIA
GP AUSTRIA F1/2016 – SPIELBERG (AUSTRIA)
© FOTO STUDIO COLOMBO PER FERRARI MEDIA

Dopo MelbourneBarcellona e Monaco ecco l’Austria: che questo non sia un campionato noioso dev’essere ormai chiaro a tutti, che frequentino le gare abitualmente a bordo pista, che le guardino nella consolante quiete del proprio divano su un canale multi regia o che seguano l’anelito del segnale wifi dietro a un innominabile streaming ceceno.

Nonostante il dominio Mercedes venga brutalmente ribadito a ogni gara, perché vincono anche quando collidono fra loro e, anche quando riescono nell’impresa di farsi fuori da soli, gli avversari che davvero potrebbero impensierirli non sono lì ad approfittarne – quindi, in definitiva, vincono anche quando si ritirano –  non c’è rischio di noia in questa stagione 2016. Niente noia perché questo è un campionato pieno di episodi che hanno scaldato il dibattito e tenuto vivo l’interesse; se ci pensate,infatti, dentro e fuori pista, ne sono successe parecchie: incidenti spettacolari, tentativi di ribellione alle schizofrenie regolamentari, nuove scuderie e nuovi piloti, gomme dalle prestazioni alle volte inspiegabili, duelli, prime volte, dichiarazioni pepate, pessime risposte date a domande poco opportune, scambi di piloti e discutibili divise celebrative, per citarne solo alcune. Siamo solo alla nona gara di quel che si preannuncia un estenuante tour de force di ventuno tappe e già solo nella condotta del dinamico duo di testa formato da Hamilton e Rosberg si legge la pervicace determinazione a non arrendersi a un finale già scritto: ai cento punti in quattro gare con i quali il vicino di box lo ha schiaffeggiato, infatti, il britannico esteta della sobrietà ha risposto con prestazioni maiuscole, per il bene della propria classifica ma –anche e soprattutto – per quello di chi questo sport lo vive e lo guarda. Quanto alla collisione, più che di giudicare la manovra dell’uno o dell’altro, viene voglia di immedesimar visi: in Hamilton, che era in pole, aveva perso il vantaggio, lo aveva recuperato e dunque perché mai non avrebbe dovuto provarci; in Rosberg, che partiva quinto per penalità non a lui imputabili (scusate, ma non avallerò mai questa assurdità di penalizzare piloti e squadre per sostituzioni di parti meccaniche), era arrivato autorevolmente al comando e quindi perché mai avrebbe dovuto far passare il rivale; in Wolf, che sì è facile, quando si è egemoni, fare i superiori che non danno ordini di scuderia, ma, per tutte le vallate della Stiria, regalare i podi ai bibitari coi lederhofer sulla tuta proprio no. Ecco, noi a casa, almeno, non ci siamo annoiati.
Niente noia, insomma: Verstappen a podio, Raikkonen che salva la faccia della Ferrari, Jenson Button eroe della domenica e Pascal Wehrlein vero driver of the day che danno lezioni a tutti con vetture inferiori su una pista vera, senza approfittarsi di pioggia e altre apocalissi che siano giunte a ribaltare gli esiti della gara.
Niente noia, ma tutto questo è comunque troppo poco. Sì, troppo poco.
Mercedes non ha, finora, trovato rivali che possano impensierirla, quindi il più delle volte è da sola, ad assistere alle lotte fra i suoi due piloti, spettatrice di se stessa: troppo poco. Ferrari paga un progetto magari estremo e una rincorsa impavida ma snervante ai rivali teutonici, cerca di battersi alla pari, azzarda e qualcosa raccoglie: troppo poco. Red Bull vive di acuti e di due piloti di razza, discontinua: troppo poco. Force India, invece, di exploit del singolo: troppo poco. Williams e Renault, una volta binomio da paura, non pervenute: troppo poco. Toro Rosso consistente, ma relegata a centro gruppo: troppo poco. Sauber e Manor raccolgono le briciole, se le briciole avanzano: troppo poco. McLaren Honda, più proclami della Ferrari , più investimenti di Mercedes e più delusioni di Renault: troppo poco. Per come questa Formula Uno è costruita, qualche gara non noiosa in mezzo a un lungo campionato è davvero troppo poco per questo sport, e non potrà essere altrimenti, finché rimarranno regolamenti asfissianti e incomprensibili ai più, finché verranno comminate penalità ridicole (scusate, non ce la faccio proprio), finché le corti dorate del Circus resteranno inaccessibili per gli appassionati, finché continueremo a vedere un’alternanza di cicli di dominio ora dell’uno, ora dell’altro, con i rivali relegati a spartirsi quel che resta, se qualcosa resta.
Tutto questo è troppo poco. Questa è Formula Maddeché, non è Formula Uno!
E – segnatevi queste parole, perché più di tanto non dirò e non ripeterò – non fa tanto bene all’atmosfera generale nemmeno questa specie di agone medievale fra opinionisti vari che, sfruttando la grancassa di Internet e dei social, spacciano la loro faziosità per diritto di cronaca. L’appassionato, il tifoso, quello vero, disinteressato e civile, è un patrimonio da tutelare e da ascoltare: chi ne cavalca il malcontento per qualche condivisione o like, invece, è solo, come si dice dalle mie parti, unvoccaperta. Pari, cioè, a quegli homini scipiens che, ieri, fischiavano il vincitore del Gran Premio d’Austria.

Il Minardi Day e il successo vero

Pubblicato su CircusFuno il 28/06/16

Laura_MinardiDay_2016
“Io distinguo due tipi di successo: quello che ho avuto nello sport e quello nel cinema. Il primo è mio e non me lo leva nessuno. Il secondo è quello che il pubblico ha deciso di darmi e che mi ha permesso di fare 120 film.”
C’è una marcata linea che unisce questo pensiero di Bud Spencer, scomparso ieri mentre questi pensieri sparsi si organizzavano, al messaggio del Minardi Day, tenutosi a Imola lo scorso sabato 25: quel che si ottiene con le proprie forze è un patrimonio che non subisce svalutazioni e, anzi, cresce e si rivaluta, fecondo, negli anni. Non solo: c’è qualcosa forse di più sfuggente ma altrettanto duraturo, cioè il riconoscimento del pubblico, l’affetto dei fans, che riesce a superare i limiti delle possibilità intrinseche, siano esse rappresentate da un budget irrisorio per correre un campionato di Formula Uno o dalla ripetitività di una sceneggiatura di un film per famiglie. Il pubblico può decretare il successo al di là di limiti e risultati ma questo accade solo quando dall’altra parte – dello schermo o della pista – c’è qualcuno che ha saputo offrire tutto di sé e inviare un messaggio capace di radicarsi. Così è stato per Bud Spencer, così è per Minardi.
C’è una marcata linea che unisce gente di tutte le età e provenienze; si radunano spinte dalla passione per i motori e si ritrovano nell’intimo affetto per le proprie memorie, sotto le insegne di un leone araldico dorato in campo blu che sormonta un tricolore, sotto le insegne di Minardi. Fra di loro scorre un nastro d’asfalto, una pista: Imola, già lo scrissi, non è un posto come un altro, ma uno di quei luoghi nati per caso che, col tempo, si sono presi un pezzo del cuore di ogni appassionato. E così, grazie a Giancarlo Minardi, sotto il sole rovente del primo, vero sabato d’estate, macchine come non se ne fanno più hanno morso l’asfalto di curve sulle quali non si corre più, facendo rimbombare nell’aria suoni che non si sentono più, cullate dall’entusiasmo di bambini di una volta che, da papà e da nonni, accompagnavano altri bambini, pieni del loro stesso stupore.
Fra piloti di un recente passato, collezionisti, tecnici e progettisti di ieri e di oggi, a Imola, il 25 giugno, scorreva un fiume di circa tremila appassionati, ognuno dei quali cercava un ricordo fra le monoposto in esposizione – che fosse una livrea, uno stemma, una particolare parte aerodinamica o solo un colore squillante – e ha finito per trovarne altri da riportarsi a casa: un autografo, un autoscatto in sala stampa o una nuova amicizia.
Il successo, quello vero, è riuscire a lasciare qualcosa nel cuore di un appassionato, qualcosa che ti spinga a venire e a cercare, fra bellissime vetture storiche e nuove regine dei circuiti, un pezzo di te condiviso con altri sconosciuti, qualcosa che – magari – ti riporti il tuo eroe di quand’eri bambino. Che sia stata la Minardi di Michele Alboreto. O la Dune Buggy di Bud Spencer.
Io, al Minardi Day, c’ero.

Montreal e un campionato a episodi per la Ferrari

Pubblicato su CircusFuno il 14/06/16

Campionato F1 SF16-H
Che ci crediate o no, avrei scritto un gran pezzo a commento dell’ultimo Gran Premio del Canada.  Però – sapete com’è – fra differite, lavoro, imprevisti della vita e fine prematura delle mie caramelle preferite, non ho avuto neanche il tempo di farmi cogliere dall’horror vacui del foglio bianco che mi sono resa conto che erano già andati via tutti gli argomenti migliori, tipo:
  • La strategia Ferrai era sbagliata ma anche no;
  • Vettel parte bene ma commette troppi errori;
  • Frizioni in casa Mercedes, quelle che non staccano bene in partenza e quelle fra i due piloti che si toccano in partenza;
  • Del perché RedBull e Williams abbiano preso a imitarsi a vicenda le rispettive tecniche di pit stop, visto che, da qualche gara a questa parte, i primi si coprono di ridicolo e i secondi realizzano il record della gara;
  • Daniel Ricciardo salverà il mondo ma che qualcuno lo salvi da Verstappen e dai cambi gomme;
  • Quel che non potè il muro dei campioni, poterono i gabbiani;
  • Anche questa volta le McLaren torneranno a impensierire i top team la prossima;
  • Ammazza quanto durano ‘ste gomme!

E io, che sono da sempre contraria a scopiazzare quello che altri hanno già saputo esprimere prima e meglio di quanto avrei fatto di mio, mi sono trovata nello stesso, fastidioso impasse trascorso nel box RedBull durante lo scorso Gran Premio di Monaco.
Vi interessi o no qualcosa dei fatti miei, è stato come rivivere l’incubo della preparazione della tesina di terza media: non essendo mai stata una grande scattista, ecco che tutti mi sfilarono, da sotto le ancora magre terga, tutti i temi più succosi del percorso multidisciplinare che dovevamo portare agli esami, come totalitarismi, Europa unita, l’allora recente conflitto dei Balcani e le stragi di mafia. Mi toccò, pertanto, un avventuroso percorso inventato sui due piedi che univa le grandi contraddizioni del Subcontinente indiano alla saggistica in francese sulla condizione della donna, passando per l’iconica figura della Traviata di Verdi. A ben vedere, trovare il bandolo del checciazzecca nella mia tesina multidisciplinare di terza media era equivalente a comprendere come diavolo Valtteri Bottas  fosse finito sul podio di Montreal, eppure è successo: La Formula Uno sa essere originale, del resto, è lo sport del don’t drink before you drive eppure Heineken is main sponsor. Originale, come il mio percorso multidisciplinare, come gli episodi della vita.
E di episodi, cari tifosi della Ferrari, ho idea che vivremo, in questo campionato avaro di soddisfazioni rotonde, come quelle che derivano da vittorie e poles. Non fingiamo di aver creduto alla rassicurante favoletta della buonanotte pre-campionato, quella di Macchinetta Rossa che si mangia il Lupo D’Argento e non viceversa: nemmeno nelle favole gli antagonisti stanno a guardare, lo sapevamo, però speravamo e questo è bello e lecito, ma la realtà sa essere astutamente crudele quando deve riportarci coi piedi per terra. Ora, però, non stracciamoci le vesti e non puntiamo il dito a caso, verso questo o quel capro espiatorio, perché sono proprio gli ultimi metri quelli più faticosi e rischiosi da percorrere quando ci si trova ad affrontare una salita, salita che, fra tutti gli inseguitori del team Mercedes, per Ferrari è stata più impervia che per altri perché affrontata assieme a un cambiamento, tecnico e manageriale, davvero epocale. Mancano ancora pochi cavalli al motore, ancora pochi decimi di secondo nel giro secco, ancora pochi giri sulle gomme per giocarsela alla pari con i rivali e saranno i più duri, quindi non commettiamo l’errore di bollare come ingannevole e inconcludente tutto il progetto 2016, che, a mio modesto parere, ha mostrato molta sostanza, accanto a lacune ed errori innegabili.
Consoliamoci, allora, con le battute – per esempio esclamando che il progetto 666, nel 2015, fece vedere sprazzi d’inferno alla Mercedes mentre il 667, nel 2016, li sta facendo vedere a noi tifosi – fidiamoci degli uomini e godiamoci gli episodi: l’arrembaggio in partenza e lo schiocco delle sverniciature che hanno scaldato al fuoco rosso la gelida domenica di Montreal ce li ricorderemo per un bel pezzo.

Daniil e Max. Numeri e destini nel crocevia del Gran Premio di Spagna

Pubblicato su CircusFuno il 18/05/16

Verstappen-Kvyat-F1-2016
Il Gran Premio di Spagna è stato un crocevia di destini rappresentati da numeri: i diciotto anni del più giovane vincitore di tutti i tempi, Max Verstappen; la striscia di dieci vittorie consecutive della Mercedes interrotta  per un colpo di (testa)coda; i trentasei anni di Kimi Raikkonen, croce e delizia; i tre secondi e mezzo di quell’ultima sosta di Sebastian Vettel ai box, un capolavoro di scuola Williams nella categoria degli undercut falliti; la qualifica da top ten di Fernando Alonso e il sesto posto di Carlos Sainz, alfieri della Spagna motoristica.
Da qualche parte, però, c’è un 1’29’’6 che non vivrà della stessa luce degli altri numeri di questa gara d’altri tempi, perché i giri veloci vengono dimenticati se non arrivano accompagnati da una pole position o, che so, da un Grand Chelem;accadendo singolarmente, invece, sono come la medaglia di legno alle Olimpiadi, il ma ho fatto il giro veloce che viene gettato come salvagente nel mare magnum di commenti a una gara altrimenti anonima: un contentino, insomma, per chi poteva – e voleva – fare meglio. Quell’ 1’29’’6 è l’altra faccia della medaglia della vicenda sportiva della Red Bull tornata a vincere e del suo giovanissimo pupillo, è il numero che rappresenta Daniil Kvyat nel crocevia dei destini del Gran Premio di Spagna.
Vittima della propria vettura in Australia, Driver of the day in Cina, empio tamponatore di Ferrari in Russia e ora eponimo del  “materiale sacrificabile” dell’accademia per giovani dotati che è l’impero bibitaro del Lord Marko, Daniil Kvyat ha sorseggiato l’amaro calice che, prima di lui, è toccato ai vari VergneBuemiAlgersuari e – nomen omen – Speed, presi e sbattuti dagli altari alla polvere con la stessa repentina leggerezza con la quale si spostano le pedine al gioco dell’oca. E così, dopo aver assaggiato una Red Bull finalmente performante, seducente nelle forme e pericolosamente – per gli avversari – somigliante al missile di qualche anno fa, quello che ti metteva le ali sul serio, il buon Kvyat, dopo aver passato un 2015 a presenziare a grigliate e conclavi – a seconda di come volessero interpretarsi le cicliche fumate bianche che partivano dal suo propulsore – proprio quando vedeva concretizzarsi la malcelata speranza di mettere insieme una buona stagione fra podi, piazzamenti e  – perché no? – vittorie, si ritrova retrocesso in quel di Faenza, a guardare, a bordo di una Toro Rossa di recriminazioni, il suo compagno di squadra Sainz finirgli davanti e la sua ex monoposto vincere la prima gara da due stagioni. Vincere, guidata da un altro. Un altro che è sì un predestinato, ma che ha avuto dalla sua, oltre a una  vettura valida, una strategia azzeccata e una buona dose di fortuna: la verità è che Max può, Daniil no.
Così, mentre nelle prime posizioni si disputava un’altra gara, Daniil Kvyat ha stampato quel fastest lap, 1’29’’6; era doppiato, ma, per un curioso caso, nel crocevia di destini del Gran Premio di Spagna s’è trovato proprio lì, in mezzo ai duellanti, a osservare quel che accadeva e, forse, a rimuginare su quel che sarebbe potuto essere, ma … Max può, Daniil no.

Il crocevia dei destini del Gran Premio di Spagna ci ha lasciati, alla fine, con qualche altra considerazione: benché tanti avrebbero gioito se il vecchio Raikkonen fosse riuscito a sorpassare il giovane Verstappen, mostrando – a lui e a noi romantici – un po’ della mai sopita classe, è pur vero che a questo libro liso e stinto della Formula Uno, che attira sempre meno lettori, è stata aggiunta una nuova e patinata pagina di storia. Abbiamo e avremo a lungo un nuovo più giovane vincitore di gran premio, ma il record del maggior numero di vittorie consecutive, undici, appartiene ancora alla McLaren di Senna e Prost, annata 1988: passi per la storia, che va riscritta ogni tanto, ma le leggende – quelle vere – le lasciamo stare.

Cento anni fa nasceva la Targa Florio

Pubblicato su CircusFuno il 05/05/16

Targa Florio
Esiste una terra magica in cui i colori del paesaggio hanno la potenza narrativa dei disegni dei bambini, con l’azzurro intenso del cielo, il blu lapislazzulo del mare, il bianco abbacinante delle spiagge e il nero lucente delle rocce vulcaniche. È la Sicilia, una terra di teatri, templi e capitali di Regni, povera pur essendo ricchissima, sulle cui strade è passata spesso la Storia; anche quella dell’automobilismo, poiché, da un certo giorno di maggio in poi, per le strade di Cerda, Caltavuturo, Castellana, Petralia Sottana, Petralia Soprana, Geraci, Castelbuono, Isnello, Collesano, Campofelice di Roccella, Bonfornello – ma anche Cefalù, Messina, Catania, Siracusa, Noto, Vittoria, Agrigento, Castelvetrano, Mazara, Marsala, Trapani e Palermo – agli echi mitologici di dei ed eroi della Magna Grecia si mescolò il rombo dei motori delle auto da corsa.
Vincenzo Florio era un giovane e facoltoso cittadino palermitano, nelle cui vene scorreva un misto di sangue blu di nobiltà e sacro fuoco della velocità, caratteristiche che lo accomunavano a quei Gentiluomini al Volante  – o Cavalieri del Rischio –  che furono l’anima dell’epoca  eroica delle corse automobilistiche. Vincenzo Florio era quel che si definisce un signore palermitano, nobile non solo per nascita ma per carattere, fiero della propria terra e capace di portarla alla ribalta nel mondo, creando una lunga ed estrema corsa su strada (quasi centocinquanta chilometri totali nella sua versione più lunga) laddove non c’erano neppure le strade, una corsa che sarebbe diventata leggendaria in capo a pochi anni e il cui trofeo fu ambitissimo per tutti i migliori, scuderie e piloti: la Targa Florio, “a Cursa”, che si tenne per la prima volta nel 1906, in Sicilia e per la Sicilia.
Targa Florio
Scorrete l’albo d’oro della corsa, la più longeva della sua categoria – oltre settant’anni di competizioni valide nell’ambito di campionati mondiali, come quello Prototipi, e che, nella sua versione rallystica, è ancora oggi inserita nel campionato italiano – e vi troverete i nomi dei più famosi domatori d’auto dell’epoca d’oro delle corse:  Nuvolari, Varzi, Villoresi, Taruffi, ma anche Sivocci, Musso, Bonnier, Von Trips, fino a Bandini, Merzario, Marko e l’eroe locale, Nino Vaccarella. E le donne, Ada Pace e Maria Teresa De Filippis su tutte. Leggete quali e quante Scuderie si disputarono la Targa Florio, quale sigillo di eccellenza meccanica e motoristica: Porsche, Ferrari, Lancia, Alfa Romeo, Bugatti, Maserati, Mercedes, Isotta  Fraschini, fra le altre. Alla voce “pietre miliari” troverete che il Quadrifoglio Alfa Romeo apparve per la prima volta su due RL Targa Florio, che presero parte all’edizione 1923 e furono guidate da Antonio Ascari, Enzo Ferrari, Giulio Masetti e Ugo Sivocci; fu quest’ultimo, vincitore a sorpresa di una gara rocambolesca, ad avere l’idea di apporre sulla propria vettura quel motivo, da allora diventato simbolo dell’arte di costruire auto da corsa, oltre che amuleto beneaugurante. Più che dalle statistiche, però, il valore assoluto della Targa Florio è dato dalle imprese sportive che vi ebbero luogo, fra gare funestate da incidenti, spettacolari duelli ed esiti incerti fino al taglio del traguardo, oltre che dall’affetto senza eguali manifestato dal suo pubblico fin dalle primissime edizioni.
E ora che sono cento anni, la volontà di proseguire l’opera del fondatore Vincenzo Florio sembra aver ispirato gli attuali organizzatori, i quali hanno coinvolto autorità locali e grandi nomi – Jean Todt, Helmut Marko, Arturo Merzario e Nino Vaccarella, solo a citarne alcuni – in una edizione celebrativa che non sarà solo rievocazione ma anche gara vera e propria. Grazie alla Targa Florio, sopravvissuta ai cambiamenti del tempo e dell’automobilismo, forse, per una volta, l’adagio di gattopardiana memoria per il quale bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale a prima ha assunto un significato positivo, nelle emozioni e nei cuori degli appassionati. In Sicilia e per la Sicilia.
“A cosa servono le automobili da viaggio, se non si costruiscono strade sulle quali farle viaggiare?”
Vincenzo Florio        

Primo Maggio, il Gran Premio di Russia sul palcoscenico delle coincidenze

Pubblicato su CircusFuno il 28/04/16

Ayrton Senna at the GP di San Marino in Imola, Italy in 1994.
Ayrton Senna at the GP di San Marino in Imola, Italy in 1994.

Sul palcoscenico della storia della Formula Uno gli eventi danzano seguendo passi imprevedibili e le coreografie intrecciano fra loro vite e destini in maniera imponderabile. Coincidenze, le chiamano. 

Di coincidenza si tratterà quando si correrà il prossimo Gran Premio di Russia: sarà il Primo Maggio, per la prima volta da ventidue anni, da quel primo maggio lì. Due anni fa, il Gran Premio di Russia è stato la prima gara con un box privo del suo pilota, svuotato dalla fatalità proprio come vent’anni prima, in quella gara lì. In questi giorni, il Gran Premio di Russia cade in corrispondenza di un anniversario, a dieci anni dall’ultima corsa disputata a Imola, dove si corse quella volta lì. Coincidenze, eppure non possiamo che pensare a lui e a che direbbe, ora.
E chissà che direbbe ora, Ayrton Senna, di questa Formula Uno che, una volta, montava tribune nuove nei punti più belli delle piste e ora interra i punti belli delle piste per farle passare davanti a delle nuove tribune; di monoposto che soffrono la vicinanza delle altre e per questo vanno aiutate a sorpassare; di piloti che non possono cercare la prestazione altrimenti consumano carburante oltre il consentito e di anfratti senza storia che rubano il posto a circuiti che hanno fatto la storia, come quella Imola che tanto amava.
Chissà che direbbe, Ayrton, la stella più splendente del firmamento delle corse, pensando alle tenebre che avvolgono ora l’esistenza del vincitore di quell’ultimo Gran Premio in riva al Santerno, dieci anni fa, di quel Michael Schumacher, la stella che offuscò il suo firmamento nell’ultimo arco della sua vita sulle piste.  Chissà cosa avrebbe detto, Ayrton, due anni fa, guardando quei ragazzi che, da bambini, sognavano di essere come  lui, stringersi a quei ragazzi che, da bambini, sognavano di essere come Michael, mentre cercavano di tenera accesa la luce sulla stella del loro compagno Jules Bianchi, che, invece, lentamente tramontava.
Chissà cosa direbbe, Ayrton, se si trovasse a commentare la danza degli eventi sul palcoscenico della Formula Uno. Forse starebbe in silenzio, assorto eppure lieve come solo lui sapeva essere, oppure direbbe quel che ha immaginato per lui il poetaPaolo Montevecchi, nella canzone cantata da Lucio Dalla:
Il mio nome è Ayrton e faccio il pilota
e corro veloce per la mia strada
anche se non è più la stessa strada
anche se non è più la stessa cosa
anche se qui non ci sono i piloti
anche se qui non ci sono bandiere
anche se forse non è servito a niente
tanto il circo cambierà città

E noi, che credevamo che niente sarebbe stato più come prima, come ventidue anni fa, come dieci anni fa e come due anni fa, continueremo ad assistere allo spettacolo.

Alboreto, Il dolore della lontananza a 15 anni dalla scomparsa

Pubblicato su CircusFuno il 25/04/16

Michele Alboreto
Michele Alboreto

La nostalgia è quel sentimento che ti grava l’anima, che ti invade come un cielo carico di pioggia fa con la cornice di una finestra, quando a impedire che collassi in un mare arrabbiato e torbido c’è solo una fragile striscia scura, all’orizzonte. Nostalgia evoca la mancanza di qualcosa o di qualcuno, ma il suo significato letterale è “dolore della lontananza”, dolore per una distanza, fisica o spirituale, per un distacco imposto, per un tempo passato che non ritornerà.

Cos’è, in Formula Uno, la nostalgia? E’ un sentimento condiviso da entusiasti e scontenti, perché si porta dietro polemiche e storie riavvolte ad libitum come il nastro infinito di una vecchia musicassetta, quelle delle corse che erano più belle, delle macchine che erano più potenti e dei piloti che erano più … piloti; è anche il ricordo, presente e pressante, di persone che furono eroi, miti o solo numeri e sorrisi, dolorosamente assenti da un certo giorno in avanti ma mai dimenticati.
Ogni giorno, in Formula Uno, nasce un nostalgico. Tutti – chi più, chi meno – lo diventiamo. Per alcuni avviene per fasi, per altri il passaggio è sancito da una data precisa. Per me è stato il 25 aprile 2001.
Non ricordo se fosse un giorno gelido come oggi, quindici anni dopo, o se splendesse un tragico sole laggiù, nelle foreste vicino al Lausitzring: so solo che quel giorno Michele Alboreto se n’è andato e la notizia giunse come una folata di vento che piega improvvisamente da una direzione diversa. Ogni anniversario si risveglia il dolore per la lontananza di una Formula Uno temeraria, di piloti che non si sentivano mai arrivati e che non erano mai né troppo giovani né vecchi ancora giovani, di costruttori che non dormivano mai e di monoposto indocili come cavalli di razza. Ogni anniversario si ravviva il dolore per la lontananza di un pilota che fu l’ultimo campione italiano su una Ferrari, che sfiorò un titolo maledetto e che fu un uomo carismatico ma profondamente gentile.
Per molti bambini degli anni Ottanta che scoprivano per la prima volta questo sport bellissimo e si ritrovavano in casa un familiare che credeva nei sogni fino all’ultimo, Michele Alboreto era la Formula Uno e, adesso, è la nostra nostalgia, il nostro dolore della lontananza.
Ciao.
Photo Credits: Minardi.com

I WAS RACING. Ricordatelo, Sebastian!

Pubblicato su CircusFuno il 19/04/16

Vettel Kvyat
L’asfalto, nero di gomma e di adrenalina, si getta in una curva a spirale che si avvolge su se stessa e sui destini incrociati del Gran Premio di Cina, domenica 17 aprile; duecentosettanta metri, dice chi li ha misurati, di spinta forsennata, duecentosettanta decisivi metri. Duecentosettanta metri bevuti d’un fiato in una partenza bruciante, di arroganza magnifica e tempismo agonistico perfetto: le ali, questa volta, le ha messe Daniil Kvyat. Avvolte in una nuvola di sabbione, frustrazione e detriti, le due Ferrari stanno, l’una contro l’altra piantate, catturate fatalmente dall’errore che capita nel momento meno opportuno e contro l’avversario meno auspicabile. La furiosa risalita che ne verrà, disperatamente bella quanto utile solo a non far rovesciare quel po’ di liquido che restava nel bicchiere mezzo pieno rimasto dopo le prime due gare, segnerà il resto della gara.
“I was racing.”
Sembra mormorare, fra le righe delle sue sommesse scuse via radio, Sebastian Vettel, deluso d’aver rovinato la sua gara e quella del compagno di squadra. Ma queste sono le corse e gli incidenti di gara capitano.
“Sono più imbarazzati loro di me”, chioserà, con sintesi sorniona, il Presidente Sergio Marchionne, presente in quel di Shangai, nel commentare l’inopportuna esibizione da bocciodromo offerta dai suoi alfieri alla prima curva. Imbarazzati, sì, aggiungo io, ricordando quella spettacolare sverniciata in parata rifilata ai soprannaturali rivali della Mercedes alla partenza del Gran Premio d’Australia o quella folle meraviglia messa in scena qualche mese fa, allo spegnimento dei semafori del Gran Premio d’Ungheria. La strada verso la vittoria è lastricata di errori, botti, fumate e colpi di sfortuna e non si arriva alla meta senza essersela strameritata con sudore e trascinando il giogo delle critiche: questo sembra l’ammonimento che Nostra Signora delle Corse sta impartendo alla Ferrari e al suo Presidente, finora troppo impegnato a far proclami prestagionali. Queste sono le corse e questo è – per nostra fortuna di spettatori – l’inizio scoppiettante  di un campionato lunghissimo, che si annuncia pieno di gare combattute.
“I was racing!”
Sbotterà, con l’aria di chi non ha intenzione di farsi rovinare la festa, il Driver of the Day Daniil Kvyat addosso a uno scosso Sebastian Vettel che, in maniera poco gentile, lo accuserà, giusto il tempo di saltare giù dalla monoposto, di essersi trasformato in  un pericolosissimo raggio missile con circuiti di mille valvole. Spiace, caro Sebastiano, vedere una persona solitamente giudiziosa, abile, nella maggior parte dei casi, a cavarsela con una battuta, rivestirsi di acrimonia. Spiace, perché la ruota gira e chi di I was racing ferisce, di I was racing perisce: ricordi?
“I was racing, I was faster, I passed him, I won!”
Erano I tempi del famigerato Multi-21, di tutti gli anti-Vettel smemorati che corsero a saltare sulle barricate in difesa dell’imberbe Mark Webber – persona di indubbio valore e sportivo di tutto rispetto, che aveva mille ragioni per lamentarsi, allora –  erano i tempi degli ordini di scuderia vituperati a intermittenza e dei campionati che la Ferrari perdeva per una manciata di punti, dopo lotte sfiancanti contro un mulino a vento – anzi: ad ali – di nome Red Bull. Erano i tempi in cui fu terribile averti come avversario e quelle partenze australiane e ungheresi, capolavori di opportunità e calcolo, me lo hanno ricordato. Lo sai bene anche tu, Sebastiano, che quando l’occasione si presenta l’istinto del predatore da corsa fa sì che il pilota la colga, tutto il resto è la normalità del caso, per cui basta puntare il dito, basta dare addosso a chi, come Danil Kvyat, ha svolto solo il suo mestiere; basta anche a tutti i pro-Vettel, smemorati anche loro alla pari di quegli anti di cui sopra, dei quali sono parenti stretti.
“I was racing, I was faster, I passed him, I won.”
Erano le parole di un giovane, spavaldo e rapace campione del mondo, che descrivevano quel che un pilota – e non un ospite della propria monoposto – è chiamato a fare. Ricordalo, Sebastiano, la prossima volta che lasci uno spazio!