mercoledì 28 ottobre 2015

Asafa Powell e l’onore di vincitori e vinti nel Gran Premio degli Stati Uniti.

Pubblicato su circusf1 il 27/10/15

I primati fanno parte della natura intrinseca dello sport e, se sono traguardi esaltanti che generano ammirazione e volontà d’emulazione, è pur vero che rappresentano anche il doloroso limite di una carriera, un supplizio di Tantalo messo lì a torturare gli sconfitti. I secondi.

Quando Asafa Powell scese in pista, quel 9 settembre 2007, era solo un promettente ragazzo giamaicano che aveva mostrato un enorme potenziale; il record del mondo del 100 metri piani, invece, era lì dal 2000, da quando, alle Olimpiadi di Sidney, Maurice Greene frantumò il cronometro sui 9”79. Al termine di quella giornata il cronometro – e la storia – dissero, invece, 9”74: non si trattò solo di un primato, ma del momento fatale che sancì l’inizio dell’era giamaicana nella velocità pure, l’era di Usain Bolt. Già, Bolt, il Dio del Fulmine. Nessuno, però, ricorda Powell: fu il primo e segnò la strada, ma, per una serie sventurata di infortuni e crisi personali, finì secondo. Nessuno ricorda i secondi.
Un uomo saggio – l’Uomo Saggio del motor sport – affermò, con poderosa efficacia, che il secondo è il primo dei perdenti, per cui onore al vincitore, a Lewis Hamilton, primo dei valorosi che hanno sfidato la tempesta perfetta di Austin e primo assoluto in questo campionato ampiamente pronosticabile a suo favore. Incontestabile primato il suo, ma vorrà perdonare quanti – come chi scrive – pensano che il trionfo si costruisca nella lotta e che, pertanto, non traggono appagamento da un film con un finale già scritto, in un contesto di superiorità manifesta del mezzo. Un connubio questo, pilota in stato di grazia, nel pieno della sua maturità agonistica, unito a una monoposto senza punti deboli e con margini di miglioramento costanti, molto difficilmente contrastabile dagli avversari, che pure si sono degnamente battuti.
Onore a Lewis Hamilton e a quel suo commosso ma un po’ manierato rievocare il se stesso bambino che viveva di sogni e null’altro, e onore alla Mercedes che gli ha costruito intorno una squadra solida e affidato una monoposto infallibile. Ma onore a tutti coloro i quali sono scesi nell’agone di Austin consapevoli che, in quel pomeriggio di un giorno da lupi – più che da cani – nessun altra vittoria avrebbero potuto conseguire se non quella contro la posizione in griglia, le intemperie e il mezzo stesso: onore ai Sainz, agli Alonso, ai Button, ai Raikkonen e ai Perez. Onore a Ricciardo e Kvyat, onore al piccologrande Verstappen. Onore a Rosberg, che, a parità di mezzo, ha pagato un tributo un po’ troppo salato alla sfortuna in più occasioni. E onore a Sebastian Vettel, sul cui viso non luccicava il solito sorriso fanciullesco e spavaldo, perché l’ovvia soddisfazione di essere partito tredicesimo e aver concluso terzo non può appagare lo spirito di chi voleva afferrare l’impensabile e ha pensato di riuscirci fino agli ultimi metri. Onore ai secondi, ma sono i primi quelli di cui ci si ricorda.

Asafa Powell domenica è salito sul podio del Gran Premio degli Stati Uniti a consegnare il trofeo alla squadra vincitrice. L’atletica, in fondo, è semplice: un uomo che corre in pista contro gli avversari, se stesso e il cronometro; si vince e si perde da soli. Chissà cosa avrà pensato di questa Formula Uno tecnocentrica e ritorta su di sé, abituata a cavalcate solitarie e bizantinismi di strategia, un po’ sport di squadra, un po’ sport individuale. O del fatto che ci sia voluta una mezza apocalisse meteorologica per regalarci una gara vivace, incerta, combattuta e selvaggiamente entusiasmante dal primo all’ultimo metro, una gara vera, una gara seria. Una di quelle alle quali non siamo più abituati e che è sempre più difficile vedere. Una di quelle che si ricordano, a prescindere da chi abbia vinto. O da chi sia arrivato secondo.

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