venerdì 23 ottobre 2015

SezioneLaura – Damon Hill e il mio Ritorno al Futuro

Pubblicato su circusf1 il 23/10/15

Ritorno al futuro nel 1996, quando non ci si litigavano diritti per trasmettere la Formula Uno in chiaro fra pay tv satellitare e tv di Stato. Erano gli anni dell’Attesa, della Crisi Nera di Risultati: se la Ferrari galleggia, ormai da stagioni, a fondo griglia, a che vale? E poi da quando Senna non corre più non è più domenica. Guardai quell’ultima gara in una specie di replica sintetica mandata in onda nel primo pomeriggio da Italia Uno, con telecronaca di Guido Schittone e interviste di Claudia Peroni; il mio primo campionato, il primo che avrebbe fatto parte dei miei personali ricordi e non solo dei racconti degli altri, si era appena concluso e l’appassionata diciassettenne che aveva appena preso coscienza, dai libri di scuola, che Achille avrebbe sempre perso le gare di corsa contro la tartaruga, realizzò quel giorno quel che sarebbe diventata: un’appassionata obiettiva. Io, infatti, quel 13 ottobre 1996, ero proprio contenta perché, al di là della fede e della passione, il campionato era stato vinto da Damon Hill.

“Il Titolo a Damon, campione normale” titolò un giornale, perché Damon Hill aveva una famiglia normale, con una moglie normale e una casa normale; aveva avuto una carriera normale, prima nelle formule minori, poi come collaudatore e, infine, come titolare; era un tipo tutto sommato normale: non mondano, non eccessivo, regolare, affidabile. Non c’era niente di normale, però, nell’essere Damon Hill.
Nato benestante, da giovane adulto fece ogni mestiere per mantenersi; approdato nella massima serie dell’automobilismo, riuscì ad attirare l’attenzione della quotatissima Williams, fino a meritarsi il posto di titolare, dove si battè alla pari con gente come Prost e Senna. Lui, che ebbe per due anni di fila il numero zero, dimostrò di non essere fatto di niente. Lui, che era nato privilegiato ma era dovuto partire da zero.
La Tripla Corona è un alloro dall’allure mitologica di cui non tutti possono fregiarsi. E’ intesa in una duplice versione: viene, infatti, attribuita al pilota che vince la Cinquecento Miglia di Indianapolis, la Ventiquattrore di Le Mans e il Campionato mondiale di Formula Uno, ma anche a chi abbia tagliato per primo il traguardo nelle prime due competizioni e nel Gran Premio di Monaco di Formula Uno. In qualunque delle due eccezioni la si intenda, Graham Hill può fregiarsi di quell’alloro ed è tutt’ora l’unico pilota a poterlo fare; fu asso del volante, gentleman, recordman, showman e amante degli aerei. Damon Graham Devereaux Hill era il suo unico figlio maschio.
Il frutto non cade mai troppo lontano dal pero, si dice, ma il figlio di Graham dovette attendere un bel po’ per vivere finalmente anche lui “il momento di una vita”; quell’anno, il 1996, sembrava quello buono, ma dall’altra parte del suo garage aveva preso posto un’altra illustre progenie, il figlio dell’Amatissimo, che come il padre desiderava solo vincere e, prima di allora, aveva vinto ovunque avesse corso. Ah, e poi c’era quell’altro, quello destinato a lasciare segni indelebili nella storia dell’automobilismo, molti dei quali sulle sue fiancate; quello che, nonostante le bandiere nere, lo aveva battuto, due volte. Inseguito dalla maledizione di essere un pilota vincente perché seduto in una macchina imbattibile, come se ne fosse un ospite e non il pilota, Damon Hill dominò quel campionato e dimostrò, negli anni a venire, a bordo di monoposto non all’altezza, di meritare il blasone paterno.
Ritorno al futuro nel 1996, quando la pay tv satellitare e la tv di Stato non avevano interesse a battagliare per trasmettere la Formula Uno; quando le gare ce le raccontavano Guido Schittone e Claudia Peroni, su Italia Uno, e quando una studentessa diciassettenne, che si era scoperta obiettiva, cercava di spiegare a un coetaneo che il campione del mondo di quell’anno non si chiamava Nemo Nihil come quella cosa di latino, ma Damon Hill.

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