Pubblicato originariamente su circusf1 il 07/09/15
Questa volta vi parlerò di una
linea. Non è quella ribollente di passione, tracciata fra Maranello, Imola e
tangente all’infinito i cuori di innumerevoli appassionati; non è quella
sinuosa, tempestosa e avvincente che lega a sé le piste storiche di questo
sport – Silverstone, Monaco, Spa e Monza, appunto; non è quella intermittente
che congiunge il destino del meraviglioso impianto brianzolo alla trista misura
del portafoglio di MrE. Non è nemmeno l’impressionante tratto che unisce i
trionfi di Lewis Hamilton in questo campionato che fa di tutto per non essere
noioso, nossignori. È misurata in unità di pressione, in bar, e non separa -
come asetticamente dichiarato a fine gara - una condizione di pericolo da una
di sicurezza, bensì divide la logica dal ridicolo e mai come in questo fine
settimana è stata poco visibile.
La logica vorrebbe che un’autorità
che gestisce la sicurezza in uno sport che ha visto morire un giovane di
venticinque anni per una congerie di fatalità e stupidità e non ha ancora asciugato
le lacrime versate per un racer trentasettenne morto a cavallo del suo sogno,
proprio da questi tragici accadimenti, apprendesse, imparasse, evolvesse. Quantomeno
osservasse una condotta univoca, seguendo gli stessi criteri ed esponendo
regole chiare: la severità senza equità è solo accanimento, infatti. Calando
queste parole nel contesto dell’ultimo Gran Premio di Monza, se ne trae che, se
si ha il sospetto che una gara possa partire in condizioni di non-sicurezza, la
gara non dovrebbe partire finché la sicurezza non fosse ripristinata; per far
ciò l’autorità preposta ha il diritto ma soprattutto il dovere di imporre
modifiche e correzioni, in seconda istanza sanzioni, finanche di bloccare la
partenza, a seconda del grado di rischio insito rilevato.
Il ridicolo mostra, tramite le
televisioni di mezzo mondo, una burocrazia autoreferenziale che, non paga di
aver invaso le nostre vite in forme molteplici e asfissianti, dilaga perfino laddove
l’imprevisto, il brivido, l’imponderabile, l’istinto e la passione pura, cioè quanto
di più immisurabile vi sia, sono essenza ed esistenza: nel nostro motor sport. Non
si depenna il dominatore di una gara avvincente e attesa con l’ottusa grazia di
uno scrutinatore di documenti, nascondendo la mancanza di una regolamentazione
certa e cogente dietro la patina di una non ben chiarita “esigenza di sicurezza”.
E’ ingiusto verso chi paga – il pubblico ma anche investitori, sponsor, fornitori
dell’indotto – ed è irrispettoso verso una scuderia vincente, blasonata e ben
gestita come la Mercedes. L’insieme dei due aspetti vale anche nei confronti
degli avversari, in questo caso Ferrari e Williams: non c’è onore, non c’è
merito, non c’è paga e nemmeno gusto a vincere in un modo simile, meno che mai
se è la propria gara di casa.
Così, quando le ombre si
allungano fra le frondose latifoglie del Parco della Villa Reale, la questione
bar lascia il posto alle questioni da bar: è colpa della FIA, di Bernie, di
Pirelli, di Mercedes, arbitro cornuto, governo ladro, non ci sono più le mezze
stagioni eccetera. Non si conclude affatto la vicenda Gran Premio d’Italia e se
resterà è tutt’ora un grande interrogativo.
L’ultimo pensiero lo dedico a voialtri
che passavate sotto a quel magnifico podio e avete pensato bene di esternare
uno sfogo dimensionato sulle capacità del vostro cervello: la linea che corre
fra voi, banali passanti, e gli altri, gli appassionati veri, è un’enorme
muraglia fortificata. Fischiatevi.
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