Pubblicato originariamente su circusf1 il 01/09/15
Ciuffo biondo, piglio deciso, inquietante talento. Gomme nuove, una Porsche 956, una qualifica da correre. Mille chilometri, anzi: 20,832. Stefan Bellof e il Nürburgring si conoscevano già,ma suggellarono la loro eterna amicizia con quel tempo di 6’11”13 che ancora oggi è il record della pista, nel 1983. Fu l’ennesima e forse resterà l’ultima grande leggenda dell’Inferno Verde e dei suoi gladiatori.
Un innocuo cartello turistico
color terra bruciata riporta solo il disegno di un castello stilizzato, ma chi
imbocca il bivio dalla placida statale di montagna in direzione Nürburg
sa cosa si nasconda dietro la tenebrosa foresta
che domina il paesaggio. L’Inferno Verde non è una presenza rassicurante
cucita nel tessuto urbano, bensì un riservato dominus che si occulta
avvolgendosi nelle coltri di un fitto bosco. Le sontuose strutture del moderno
paddock usato per le gare di Formula Uno vengono ampiamente anticipate dalla
precisa segnaletica e dalla grande strada a scorrimento veloce, ma la loro
fredda bellezza nulla può per rendere più attraente quella GP Strecke - che ha
preso il posto della gloriosa Sudschleife - al cospetto del fascino dell’anello
nord: novelli Faust, tutti gli appassionati che si avvicinano a quella porzione
di foresta dell’Eifel vendono l’anima al diavolo della Nordschleife e si
incolonnano per gettarsi fra le braccia delle sue curve.
Stefan Bellof, Niki Lauda, Jacky
Ickx. Lancia Martini, Ferrari, Porsche. Ma anche furgoni, station wagon, camper;
motociclisti da enduro, ragionieri con famiglia e cane, turisti di passaggio:
con soli ventisette euro chiunque, su qualunque vettura, può calcare il sacro
suolo per un giro. Non solo: può farlo per due anni dall’emissione, qualora,
per qualunque motivo indipendente dalla sua volontà, non riesca a girare sul
Ring al primo tentativo. Questa è la più perfetta soluzione che coniuga
efficienza e passione che poteva essere realizzata da un popolo celebre non solo per la propria
affidabilità, ma anche per aver “inventato” il Romanticismo. Nessuna ragione economicamente
valida o sensata che fosse può essere giustificata per aver privato la Germania
- e il suo folto e competente popolo di
appassionati - di una gara del
Campionato di Formula Uno, avendo a disposizione luoghi come il Nürburgring
o l’Hockenheimring, depennandola dal calendario con la stessa grazia che si usa
in un furto con destrezza notturno.
Il ciuffo, il piglio e il talento
sono sempre quelli. C’è sempre una Porsche da guidare per mille chilometri, ma
stavolta si affronta una gara all’Università: è il 1985 e il circuito di
Spa-Francorchamps attende Stefan Bellof carico di promesse. Come spesso accade
nelle belle e tristi storie di temerari che cavalcano destrieri di metallo su
nastri d’asfalto boscosi, la fine è amara e dolorosa. I racers, però, non
muoiono mai, così Spa rese Stefan Bellof immortale e il Ring una leggenda.
L’Eifel, regione tedesca in cui
ha sede il Nürburgring,
disterà una sessantina di chilometri o poco meno dalle Ardenne, provincia belga
in cui si trova il circuito di Spa. Sinuoso e attraente come il suo “collega”
tedesco, il tracciato belga si nasconde in una foresta solenne che, in
occasione delle competizioni ufficiali, si riempie e si colora di appassionati
e tifosi. Chi mette piede a Spa per la prima volta non lo dimentica più.
Non solo: quando ne esce non fa
altro che domandarsi per quale motivo un impianto così spettacolare sia stato eliminato
dal calendario per tanti anni. No, non può essere semplicemente una questione
di soldi o di necessità di adeguare la pista a bizantinismi regolamentari vari,
dev’esserci stato qualcos’altro sotto: qualche dirigente del circuito, dopo una
gara alla calata a base di birra trappista, avrà dato della rifatta alla
consorte di Ecclestone oppure gli avrà inciso qualche scritta ingiuriosa sulla
portiera dell’auto; qualcuno avrà fatto lo scherzo della cadrega a Tilke o
forse era originario delle Ardenne il paparazzo che immortalò l’allora
potentissimo Max Mosley a un festino in stile nazista. Qualcosa che a noi
comuni mortali eroi del divano sfugge miseramente, qualcosa di troppo torbido,
troppo ridicolo o … entrambe le cose, comunque incoffessabile, per averci
privato di Spa. La pista sembra sia stata adagiata dall’alto dal Dio dei Motori
in persona fra quei colli e quei boschi; i punti di osservazione sono
magnifici; l’organizzazione puntuale e l’oculata sistemazione degli accessi
suppliscono a una viabilità un po’ faticosa, fatta di strade strette e piccoli
paesi. Tutti si sforzano di coniugare massimo divertimento con minimo disagio.
E il tempo trascorso a Spa è tutt’ora il più ripagato nella vita di un pilota,
come disse l’inossidabile Niki Lauda.
Anche il Tempio è circondato da
alberi, ma non si tratta di una foresta, bensì della propaggine di uno
smisurato giardino, il parco della Villa Reale di Monza. Il Tempio è piatto, ma
chi l’ha concepito ha supplito con l’ingegno a quanto la Natura non offriva,
inventandosi un anello sopraelevato ad alta velocità, la più alta, che mozza il
fiato a tutti. Le tribune del Tempio sono un ricamo di tubi metallici, il podio
è un abbraccio sulla pista e sul pubblico e ha ben due santi protettori
effigiati al suo ingresso: San Cristoforo e Juan Manuel Fangio. Il tracciato
possiede quelle linee classiche, pulite e semplicemente belle come solo i
discendenti di Leonardo e Bramante potevano disegnarle e le strutture, al di là
di restauri e adeguamenti, sanno come prendere vita.
Non lasciate che il Tempio
chiuda, non lasciate che il Gran Premio d’Italia passi. Ciò che è
indimenticabile e insostituibile non può morire.
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