mercoledì 5 novembre 2014

La conquista del West e il genocidio degli Indiani

Domenica scorsa c'è stato il Gran Premio degli Stati Uniti ad Austin, Texas.






E qui premetto una cosa: questa locandina geniale è la citazione di un film spettacolare e bellissimo, How the West was won - in italiano La conquista del West - western corale interpretato da attori superlativi. Un film pieno di battute memorabili, come quella in cui il padre Karl Malden dice alla figlia Carrol Baker di lasciar perdere l'avventuriero James Stewart perché è un uomo che cammina talmente leggero che non lascia le sue orme sulla terra, volendo intendere che non avrebbe mai mollato la sua vita da trapper solitario per diventare un colono zappaterra per amore suo. O Gregory Peck, che lascia di San Francisco la descrizione più azzeccata della storia del cinema, dicendo a Debbie Reynolds che è una città bellissima, che ogni tanto viene distrutta da un incendio ma ogni volta la ricostruiscono più bella di prima. Per non parlare di John Wayne o di un giovanissimo e bellissimo George Peppard, il colonnello Smith dell'A-Team ...

D'accordo, mollo la retrospettiva cinematografica e torno alla fredda cronaca. Dicevamo che il Gran Premio si è tenuto al COTA, che sta per Circuit Of The Americas, ma a me sembra tanto uno di quegli acronimi che usano gli euroburocrati di Maastricht per individuare organismi pomposi che noi paghiamo, tipo Comunità Organizzata Trasportatori Avicoli, oppure Commissione Ostacoli Tangenziali Autostrade. Potremmo chiedere ad Alonso e Ricciardo che ne pensano,  se hanno smesso di magnificare le rispettive barbe e trollare Kvyat (a proposito, Daniel: no. Seriamente. No.).

Tornando alla gara ... Oh, basta. La verità è che non ho capito un'acca della gara, perché mi è successa la stessa cosa che capita quando guardi un film western in tv e passi la serata a discutere del genocidio degli Indiani d'America invece che della conquista del West, vale a dire divaghi dall'argomento principale per concentrati su un aspetto derivato ma innegabile. Non ho seguito la conquista del West da parte di Lewis Ginetto Hamilton perché mi sono concentrata in uno scambio di idee sul genocidio della Formula Uno, perpetrato da coloro i quali dovrebbero preservarla, avventurieri che non si sono limitati a lasciare le loro orme sul terreno, ma lo hanno proprio asfaltato, come la via di fuga della curva Parabolica di Monza (sic!).

Dovremo farci piacere un campionato nel quale non esistono più i test in pista, non si può modificare un progetto o un motore anche se ha carenze evidenti, non si sperimentano più le soluzioni che tanta fortuna hanno avuto anche nelle vetture stradali, non si scelgono più i giovani piloti promettenti a meno che non abbiano dalla loro una cospicua dote, non si possano avere più le piccole scuderie per via dei costi esorbitanti e non riusciamo più a vedere l'apporto del pilota in gara?
Ma non prendeteci per ingrati, signori Eminentissimi Capoccioni - EC, tanto per fare contenti gli Americani e la loro passione per gli acronimi - perché vi siamo immensamente riconoscenti per averci fatto dono, in nome della spettacolarità perduta, di gomme di burro e sorpassi da ala mobile.

Onesto è osservare che anche una decina d'anni fa il piattume delle gare era un problema ben presente e ancor più doveroso è rispondere a chi attacca i critici dell'attuale F1 con l'accusa di essere dei nostalgici col paraocchi forgiato direttamente dai profili alari delle monoposto di Villeneuve e Senna. Lasciate che mi aggiunga anche io e che lo faccia con una metafora cinematografica. Ne L'Uomo che uccise Liberty Valance non è l'appassionato giornalista futuro senatore James Stewart - il nuovo che avanza - a riportare la legalità uccidendo lo spietato fuorilegge Lee Marvin - l'archetipo di tutte le brutture possibili - ma il coraggioso ma rustico cowboy John Wayne - l'alfiere dei bei tempi andati ormai considerato superato. Beh, io sto con John Wayne.






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